Cass. civ., sez. I, ord., 25 settembre 2024, n. 25638
Massima Può ravvisarsi la dicatio ad patriam nel comportamento del proprietario di un fondo, il quale, nel lottizzarlo, metta – volontariamente e con carattere di continuità – una strada di sua proprietà a disposizione della collettività, consentendovi la realizzazione di infrastrutture primarie e secondarie, tra le quali l'interramento di reti telefoniche, necessarie alla popolazione. Peraltro, la valutazione del giudice di merito in ordine alla sussistenza o meno di una dicatio ad patriam, ove adeguatamente motivata, non può essere sindacata dal giudice di legittimità.
La decisione
Presidente Parise – Relatore D'Orazio
Considerato che:
1. Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione di legge – violazione dei principi di diritto che regolano il trasferimento della proprietà – violazione dell'art. 1 Protocollo Addizionale n. 1 della CEDU, art. 42 della Costituzione e d.P.R. n. 327 del 2001 – in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
In particolare, la Corte d'appello avrebbe trascurato un dato fondamentale, costituito dalla «appartenenza della strada denominata via (OMISSIS), nel cui sottosuolo venivano interrati cavi telefonici, alla proprietà degli odierni ricorrenti».
Tale dato formale, costituito dal titolo di proprietà, in assenza di atti contrastanti, idonei a documentare l'intervenuto trasferimento della proprietà in capo all'ente, avrebbe dovuto «ex se condurre alla statuizione di illegittimità dell'operato di (OMISSIS)». Ciò in quanto – ad avviso della Corte d'appello – «l'accertamento di una qualsivoglia forma di servitù, così come l'esistenza di un Piano di Lottizzazione e finanche la stipula della relativa Convenzione da parte degli originari lottizzanti, non possano sopperire all'assenza di un formale atto di trasferimento di proprietà, comportando una automatica alienazione del diritto dominicale».
Neppure la stipula di una Convenzione di lottizzazione e, dunque, la formale assunzione da parte degli originari lottizzanti delle obbligazioni dalla stessa nascenti, era idonea a determinare il trasferimento della proprietà dei suoli interessati dalle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Non si rinveniva, dunque, un atto attestante il passaggio del bene alla pubblica amministrazione.
Dalla CTU emergeva che la strada si trovava all'interno di un lotto di terreno con annessa abitazione di proprietà degli attori, mentre il PRG vigente non aveva mai modificato tale destinazione di strada privata.
La Corte d'appello avrebbe erroneamente valorizzato la pretesa destinazione ad uso pubblico da parte degli originari lottizzanti, giungendo ad affermare che «gli impegni assunti in sede di lottizzazione e la costituzione della servitù, potessero supplire alla mancanza di un formale titolo di acquisto alla mano pubblica».
Tra l'altro i giudici di merito non avevano valutato la sussistenza della prova della ricorrenza dei presupposti «della dichiarata servitù costituita per dicatio ad patriam.
Quello che la Corte d'appello definisce come dato essenziale ai fini della decisione, cioè l'istallazione dei cavi risalente agli anni 1989-1991, in realtà non spostava i termini della questione, che si fondavano sull'assenza di un titolo di proprietà in capo all'ente, quale prova della configurabilità della dicatio ad patriam.
2. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti si dolgono della «violazione di legge-violazione della prospettazione dei fatti di causa e delle risultanze istruttorie-violazione articoli 115 e 116 c.p.c. – violazione legge 164 del 2014 – violazione articoli 1366 e 1374 c.c. – in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Ad avviso dei ricorrenti la Corte d'appello, pur formalmente fondando la propria statuizione su alcuni dei documenti in atti, e segnatamente sul Piano di lottizzazione e sulla Convenzione di lottizzazione, oltre che sulla Concessione edilizia, aveva fornito un'interpretazione degli stessi, non solo non conforme al dato letterale, ma contrastante con altri documenti pure in atti, senza esplicitare in alcun modo le ragioni della necessaria prevalenza degli elementi estrapolati da una interpretazione estensiva dei documenti.
In realtà, per i ricorrenti, «da tutte le prove raccolte in corso di causa è emerso a chiare lettere che i lavori di interramento di cavi del telefono non costituivano l'oggetto delle obbligazioni assunte dagli originari lottizzanti in sede di stipula della convenzione di lottizzazione».
Tanto emergeva sia dal tenore letterale della Convenzione, sia dall'accertamento del CTU, oltre che dalle note informative richieste al Comune di Lecce.
Dall'esame della Convenzione per l'attuazione delle opere di urbanizzazione emergeva esclusivamente l'obbligo di realizzazione delle seguenti opere: «Art. 3 opere stradali; Art. 4 impianti necessari all'approvvigionamento o alla distribuzione dell'acqua potabile a mezzo ente autonomo acquedotto pugliese; Art. 5 distribuzione di energia elettrica e di illuminazione; Art. 6 impianti della rete fognante».
Del resto – aggiungono i ricorrenti – le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione sono state inserite soltanto recentemente tra le opere di urbanizzazione primaria, ai sensi della legge n. 164 dell'11/11/2014.
La mancata assunzione di obbligazioni inerenti le infrastrutture di reti telefoniche emerge poi inconfutabilmente dalle note informative richieste dal tribunale al Comune di Lecce.
Da tali attestazioni emergerebbe la mancata previsione di infrastrutture per rete telefonica esterna nella concessione edilizia n. 181 del 1990.
Tali attestazioni sarebbero state «del tutto ignorate, sia dal tribunale, sia dalla Corte d'appello».
La locuzione contenuta nella concessione edilizia «a tutte le opere necessarie alla strutturazione, sistemazione ed agibilità del complesso» non poteva che essere interpretata come locuzione di stile.
3. I due motivi di ricorso, che vanno affrontati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono inammissibili.
3.1. I due motivi, costruiti come violazione di legge, in realtà tendono ad una diversa valutazione degli elementi istruttori, compiutamente effettuata dalla Corte territoriale, non consentita in questa sede.
4. Tra l'altro, la censura in ordine al vizio di motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., è impedita ex art. 348-ter c.p.c., nella versione all'epoca vigente, introdotta con il decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, dalla esistenza di una doppia decisione conforme di merito.
5. Inoltre, i ricorrenti contestano l'interpretazione dei documenti effettuata dalla Corte d'appello, senza però indicare i diversi criteri di ermeneutica contrattuale che la Corte territoriale avrebbe dovuto utilizzare.
Ed infatti, in tema di interpretazione del contratto, alla Corte di cassazione è affidato il compito di verificare che non sussista un vizio di attività del giudice del merito, rilevabile solo nell'ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e nel caso di riscontro di una motivazione contraria a logica ed incongrua, tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. D'altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. sez. 3, 17/7/2003, n. 11193; anche Cass., sez. 1, 15/11/2017, n. 27136).
La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell'interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l'onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest'ultima non deve essere l'unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra (Cass., sez. 3, 28/11/2017, n. 28319).
Tra l'altro, i ricorrenti non hanno nemmeno provveduto alla trascrizione degli obblighi relativi agli oneri di urbanizzazione contenuti nel piano di lottizzazione, limitandosi a riportare una porzione inidonea a consentire a questa Corte ogni valutazione.
6. Un altro profilo di inammissibilità deriva dalla circostanza che i motivi di ricorso per cassazione non si confrontano con la effettiva ratio della decisione della Corte d'appello.
Infatti, la Corte territoriale ha ritenuto che la strada denominata via (OMISSIS) era di natura privata, ma che i precedenti danti causa degli attori l'avevano destinata ad uso pubblico, attraverso la dicatio ad patriam.
Al contrario, i ricorrenti incentrano il loro sforzo argomentativo di contrasto alla decisione, fondandolo sul dato formale dell'appartenenza della strada alla proprietà privata degli stessi.
Circostanza, quest'ultima, in alcun modo messa in discussione dalla Corte d'appello.
7. Deve premettersi che costituisce principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (di recente Cass., sez. 1, 17/7/2024, n. 19784, che ha però escluso la sussistenza della dicatio ad patriam in quanto mancava un collegamento con la strada pubblica e vi era stato il rifiuto da parte dell'amministrazione comunale all'effettuazione di interventi di manutenzione del manto stradale), quello secondo cui la dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, postula che il proprietario, con un comportamento anche non intenzionalmente diretto a dare vita al predetto diritto, metta volontariamente il proprio bene a disposizione della collettività, con carattere di continuità e non di mera precarietà e tolleranza, assoggettandolo al relativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune dei membri della collettività considerati uti cives (cfr. Cass., Sez. II, 14/06/2018, n. 15618; 22/11/2000, n. 15111; di recente Cass., sez. 1, 26/4/2024, n. 11320), e ciò indipendentemente non solo dai motivi per cui tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (cfr. Cass., Sez. II, 4/06/2001, n. 7481; 21/05/2001, n. 6924; 17/03/1995, n. 3117), ma anche dal decorso di un congruo periodo di tempo o dall'esistenza di un atto negoziale o un provvedimento ablativo (cfr. Cass., Sez. II, 10/12/1994, n. 10574).
In un caso è stata esclusa la sussistenza della dicatio ad patriam, con la conferma da parte della Corte di cassazione della sentenza impugnata, che aveva ritenuto che i privati avessero inteso destinare le aree di loro proprietà all'uso, come strada, dei soli proprietari e utenti degli edifici, costruiti o da costruire, sui diversi lotti fronteggianti, con la conseguente illegittimità della condotta del comune che, occupandole, le aveva sottratte ai proprietari realizzandovi opere stabili che ne avevano montato irreversibilmente la conformazione (Cass., sez. 1, 11/3/2016, n. 4851).
Si è anche ritenuto che il comportamento del proprietario di un fondo, il quale, nel lottizzarlo, metta volontariamente e con carattere di continuità una striscia di terreno a disposizione della collettività, assoggettandola al relativo uso pedonale e carrabile, rende applicabile l'istituto della cd. "dicatio ad patriam", quale modo di costituzione di una servitù. Ne deriva che la successiva esecuzione, da parte del Comune, di lavori di miglioria su detta striscia e, segnatamente, la realizzazione di un marciapiedi, non dà luogo ad una cd. occupazione usurpativa, difettandone i presupposti della trasformazione del bene in opera pubblica e della sua radicale manipolazione in guisa da farlo divenire strutturalmente un "aliud" rispetto a quello precedente e, mancando, altresì, a monte, un provvedimento amministrativo che riveli l'intendimento della P.A. di appropriarsi della strada e di trasformarla in strada pubblica, includendola nel relativo elenco (Cass., sez. 1, 27/6/2018, n. 16979).
Peraltro, la valutazione del giudice di merito in ordine alla sussistenza o meno di una dicatio ad patriam, ove adeguatamente motivata, non può essere sindacata dal giudice di legittimità (Cass., sez. 1, 3/7/2024, n. 18222).
7. La sentenza impugnata si è attenuta ai principi di diritto sopra indicati.
Infatti, la Corte territoriale ha ritenuto che la dicatio ad patriam era stata disposta dai precedenti proprietari dell'immobile negli anni 1989-1991, a seguito della lottizzazione del 1973, prima dunque dell'acquisto da parte dei ricorrenti, avvenuto nel 1992 («Gli originari attori sono divenuti proprietari, nel 1992, di una zona di terreno già lottizzata fine dal 1973 e con la strada ormai irreversibilmente destinata, per volontà degli attori e dei loro dante causa, ad un uso pubblico che ha svuotato il diritto dominicale di ogni contenuto è facoltà di godimento»).
Il giudice d'appello ha valorizzato il contenuto del Piano di lottizzazione, come pure quanto riportato nella Convenzione urbanistica e nella Concessione edilizia, per dedurne la sussistenza della volontà dei danti causa dei ricorrenti nel consentire la realizzazione di infrastrutture primarie e secondarie, tra le quali non poteva non essere ricompreso l'interramento di reti telefoniche, necessarie alla popolazione («appare convincente la tesi prospettata dall'appellato per cui è proprio la presenza di un Piano di Lottizzazione – che per sua natura, richiede necessariamente la realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione primaria, e talvolta anche secondarie – a costituire il titolo autorizzativo per la presenza delle (OMISSIS) – ex (OMISSIS)). La circostanza, peraltro, è confermata proprio dalla Concessione Edilizia n. 181/90, relativa alla costruzione dell'immobile degli attori. E' dato, infatti, leggere, testualmente, in detta Concessione “considerato che gli obblighi riguardanti gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria sono stati assolti dei lottizzanti”»).
La concessione edilizia era stata dunque rilasciata al precedente proprietario dell'immobile proprio sul presupposto che erano state realizzate le opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Ha correttamente chiarito la Corte d'appello che la Convenzione si riferiva alle opere di urbanizzazione primaria, con riferimento alla lottizzazione del 1973, con riferimento dunque alla realizzazione delle opere telefoniche «perché il riferimento alle opere necessarie alla sistemazione ed alla agibilità del complesso edilizio, comprende tutto ciò che non è incompatibile con l'assetto del territorio, ma è funzionale al miglioramento della qualità della vita dei cittadini».
Pertanto, pur restando via (OMISSIS) formalmente di proprietà privata, risultava però destinata ad uso pubblico per volontà degli attori dei danti causa e ciò, anche in assenza di un formale atto di cessione. Ciò si ricavava dall'atto negoziale del piano di lottizzazione disciplinato dalla convenzione stipulata con atto M. 17/11/1973, che è stato interpretato come riferito non solo alle opere di urbanizzazione primaria, ma a «tutte le opere necessarie alla ristrutturazione, alla sistemazione ed alla agibilità del complesso», attraverso una soluzione ermeneutica ampia del contenuto della convenzione.
7.1. Va considerato che l'interpretazione estensiva fornita dalla Corte di appello è avallata, non solo dalla successiva legislazione del 2014, ma prima ancora anche dalle disposizioni del d.P.R. n.380 del 2001 (art.16 comma 7-bis in vigore da agosto 2002).
Come chiarito dalla Corte Cost. 336/2005 «La scelta di inserire le infrastrutture di reti di comunicazione tra le opere di urbanizzazione primaria esprime un principio fondamentale della legislazione urbanistica, come tale di competenza dello Stato, al pari dell'analoga scelta legislativa di carattere generale che ha portato il citato art. 16, commi 7 e 7-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001, a classificare come opere di urbanizzazione primaria, tra le altre, le strade residenziali, gli spazi di sosta e di parcheggio, le fognature, nonché i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazione. Non si tratta, pertanto, di una norma di dettaglio, ma di una norma che fissa un principio basilare nella materia del governo del territorio, cui le Regioni, nel legiferare, dovranno attenersi a norma dell'art. 117 Cost.».
8. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico dei ricorrenti e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile ricorso.
Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore della controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 5.600,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.