Cass. Pen., sez. V, 17 aprile 2024, n. 16098

La sentenza n. 16098 del 9 gennaio-17 aprile 2024, emessa dalla quinta sezione penale della Corte di Cassazione, ha evidenziato che l'art. 223, secondo comma, n. 2 della legge fallimentare contempla due distinti reati, i quali, sebbene simili nell'aspetto oggettivo, presentano differenze significative nell'ambito soggettivo . In particolare, si distingue tra la causazione dolosa del fallimento,intenzionalmente voluto dal soggetto attivo, e il fallimento derivante da operazioni dolose, dove quest'ultimo è un effetto non specificamente voluto ma risultato di una condotta deliberata che non mira direttamente al dissesto. La Corte Suprema ha ribadito che le operazioni dolose menzionate nell'art. 223, comma 2, n. 2 della legge fallimentare possono consistere nell'inadempimento sistematico delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una precisa scelta gestionale degli amministratori societari. Tali operazioni causano un prevedibile aumento dell'esposizione debitoria della società verso l'erario e gli enti previdenziali. Si precisa che questo pregiudizio patrimoniale non deriva direttamente dall'azione dannosa del soggetto, come distrazione o dissipazione, ma da un complesso di azioni coordinate che comportano un danno economico alla società. È stato chiarito che, per configurare il reato di bancarotta impropria, non è necessario che l'operazione dolosa interrompa il nesso causale con il fallimento della società né che esista una causa indipendente del dissesto, in quanto si applica il concorso causale secondo l'articolo 41 del codice penale. Si sottolinea che il concetto di fallimento è distinto da quello di dissesto, che è reversibile e implica un danno economico. Pertanto, anche se l'operazione dolosa non causa direttamente il dissesto, ma solo il suo aggravamento, può comunque configurare il reato quando è prevedibile che tale condotta porti al dissesto. Infine, si evidenzia che il sistematico inadempimento dei debiti tributari espone la società a un dissesto sempre più grave nel tempo specialmente considerando l'accumulo degli inadempimenti e l'applicazione di interessi e sanzioni. Pertanto, anche se le operazioni dolose non causano un impoverimento immediato della società, il reato può essere configurato quando è prevedibile che tali operazioni porteranno al dissesto, dimostrando così l'elemento soggettivo del reato

CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricordo è infondato
  1. 1.1. Quanto alle censure, di cui al primo motivo, afferenti alla qualifica di amministratore di fatto in capo al ricorrente, va osservato che il ruolo al medesimo attribuito, nell'ambito di specifici periodi di attività della fallita in cui non rivestiva la carica di amministratore unico, risulta ricostruito in tali termini dal giudice di merito attraverso apprezzamenti di fatto, fondati su prove documentali e testimoniali, dalle quali è stato desunto il potere decisionale dell'imputato, che in quanto tali a -igore non sono neppure sindacabili nella presente sede di legittimità.
Secondo la compiuta ricostruzione svolta nella sentenza impugnata, il ruolo del Vetere, a differenza di quanto si assume in ricorso, non si è esaurito nell'adozione di atti giustificabili solo in virtù della qualità di socio unico rivestita dal ricorrente - così, ad esempio, per le garanzie personali rilasciate alla banca -, dal momento che anche tali atti si sono piuttosto saldati a decisioni gestionali al medesimo riconducibili. I giudici di merito hanno ben posto in evidenza come le fideiussioni prestate si inseriscano nell'ambito della vicenda legata all'appalto per la costruzione del complesso immobiliare di Maccagno in cui il ruolo di vertice e decisionale dell'imputato è emerso in tutto il suo spessore, avendo egli in tal caso assunto - come riportato nella sentenza impugnata nei precisi termini in cui si era espresso il Tribunale - « tutte le determinazioni rilevanti avendo personalmente accettato l'offerta di Insubria Viva relativa all'esecuzione dei lavori; avendo portato avanti nel tempo le commesse affidate; essendosi interfacciato con Bazzini, Calebasso, Quesitonio e Negrini; avendo personalmente sottoscritto unitamente al fratello garanzie anche personali pur di assicurare la prosecuzione dei lavori e l'erogazione del finanziamento da parte di Unicredit». È stato parimenti ritenuto indicativo del suo ruolo nella società la concessione in locazione ad un'altra società riconducibile a lui e sua moglie, la Brugnano s.a.s., di immobile della V. M. a cui non seguiva l'effettivo versamento dei canoni. Non solo, evidenziano i giudici di appello che Bazzini, collaboratore esterno e consulente della fallita, che aveva prestato la propria attività professionale in favore della V.M. dal 2007 fino alla data di dichiarazione di fallimento, aveva dichiarato di conoscere Vetere da tanti anni aggiungendo che, nonostante la società fosse gestita nel tempo da diversi amministratori che si erano avvicendati nella carica formale, le decisioni importanti erano state assunte sempre dal Vetere. Parimenti comprova ulteriormente la qualifica di amministratore di fatto - si osserva nella sentenza impugnata - la stessa effettuazione di plurimi prelevamenti di liquidità – dei quali è stata riconosciuta la natura distrattiva - da parte dell'imputato (coadiuvato dal fratello) dopo il deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo, intervenuto il 16 febbraio 2013, e addirittura nei giorni immediatamente successivi alla dichiarazione di fallimento del 23-24 maggio 2013, in forza della delega ad operare sul conto intestato alla società di cui l'imputato disponeva. Né va trascurato, aggiungono i giudici di merito, ad ulteriore conforto del ruolo apicale svolto nella società dal ricorrente, la solidità del bagaglio conoscitivo delle vicende societarie dimostrato da Vetere Antonio in occasione della procedura fallimentare in cui lo stesso si mostrava, col curatore, al corrente di ogni aspetto e risvolto della vita della società dalla data della sua costituzione fino al fallimento - e ciò evidentemente non perché aveva ricoperto anche il ruolo di direttore dei lavori o di capo cantiere, che si era solamente aggiunto all'altro, senza escluderlo. La Corte di appello non ha inoltre mancato di dare atto dell'esistenza di una missiva datata 6 dicembre 2010, sottoscritta da Roberto Calebasso per la società Insubria Viva e dal Vetere per V.M. destinata ad Unicredit, avente ad oggetto "il progetto di spin off del compendio aziendale sito in Maccagno in cui il primo confermava la prossima cessione delle quote di Hotel del Borgo s.r.I., in cui era stato conferito il ramo di azienda in oggetto, in favore di V.M."; nonché di un'ulteriore missiva sottoscritta in data 06/12/2011 sempre dal Calebasso per Insubria Viva e dal Vetere per V.M. nonostante in tale data egli non rivestisse più la carica formale di amministratore unico della società - ed inviata ad Unicredit all'attenzione del dottor Quesitonio, in cui si dava atto dell'assenza di contenziosi in essere inter partes e si trattavano le questioni relative al riconoscimento del credito d'imposta e dell'erogazione del finanziamento da parte dell'istituto di credito, questioni certamente esulanti dalle competenze di un mero capocantiere (la Corte di appello ha pure precisato che in calce alla missiva compare la sottoscrizione Antonio Vetere V.M. Costruzioni s.r.l. seguita dal timbro della società e da una sigla). Conclude, quindi, la sentenza impugnata che tale complesso di attività fa fuoriuscire necessariamente dal circoscritto ambito delle incombenze che potevano competere a un semplice capo cantiere, come sostenuto dalla difesa anche in appello, e richiamando il granitico orientamento di questa Corte riguardo alla configurabilità della amministrazione di fatto, osserva come nel caso di specie ricorrano tutti i parametri indicati nella giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Ottobrini, Rv. 268273, che ha affermato che la ricostruzione del profilo di amministratore di fatto deve condursi, in ambito penalistico, alla stregua di specifici indicatori, individuati non soltanto rapportandosi alle qualifiche formali ovvero alla mera rilevanza degli atti posti in ess.;ere in adempimento della qualifica ricoperta, bensì sulla base delle concrete attività dispiegate in riferimento alla società oggetto d'analisi, riconducibili - secondo validate massime di esperienza - ad indici sintomatici, quali la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l'intervento nella declinazione delle strategie d'impresa e nelle fasi nevralTche dell'ente economico, l'assunzione di decisioni che si riflettono sulla sorte della società). Né potrebbe assumere valore decisivo il fatto che fu il Leone a sottoscrivere alcuni degli atti formali ricondotti alla gestione dell'imputato, così per il contratto di locazione, dal momento che, rivestendo egli la qualifica formale di amministratore della società, l'atto, formalmente, non poteva che essere da lui sottoscritto; tale circostanza non esclude affatto la co-amministrazione di fatto dell'imputato, né il suo coinvolgimento nelle vicende illecite, del resto ascritte al Vetere in concorso con gli amministratori formali avvicendatisi nella gestione della società poi fallita. D'altra parte è pacifico che, ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica di amministratore "di fatto", non occorre - così come per i casi di amministrazione formale - l'esercizio di "tutti" i poteri tipici dell'organo di gestione potendosi verificare ipotesi di cogestione, anche di fatto, ma è necessaria, e sufficiente, una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale, tale da fornire elementi sintomatici dell'organico inserimento del soggetto, quale intraneus, nell'assetto societario. Né, più in generale, può ritenersi estraneo a tale accertamento il contesto illecito in cui si inseriscono i comportamenti di fatto assunti dall'agente, potendo assumere valenza corroborativa, unitamente agli altri elementi, le stesse condotte criminose poste in essere dal soggetto agente che, per l'incidenza che esse possono avere sull'assetto e sulla stessa vita della società, sono diretta esplicazione di un potere decisionale assoluto, proprio di chi svolge attività quale dominus indiscusso delle stesse sorti della società. Pertanto, il motivo, nella sostanza reiterativo di questioni già esposte in appello e congruamente affrontate dai giudici di merito, è nel suo complesso infondato in quanto insussistenti risultano in definitiva tutti i vizi con esso denunciati.
    1. Il secondo motivo, incentrato sulla condotta di distrazione dei cinque appartamenti siti in Monticelli Terme intervenuta, mediante apparente contratto di locazione, in favore della Brugnano s.a.s., ovvero di società riconducibile alla moglie del Vetere, ma in realtà senza la corresponsione di corrispettivo - che i giudici di merito nelle conformi pronunce di primo e secondo grado hanno ritenuto adeguatamente dimostrata alla stregua di diversi elementi tra i quali il mancato versamento del canone (sia da parte della Brugnano s.a.s. che degli occupanti degli immobili) - è aspecifico e
meramente reiterativo, limitandosi esso a riproporre, a giustificazione dell'attribuzione gratuita, la prospettazione di un presunto finanziamento di cui avrebbe goduto la società fallita da parte della Brugnano s.a.s.. Tale tema è stato già ritenuto dalla Corte di appello non esaustivo ai fini della giustificazione dell'attribuzione intervenuta tra le parti, trattandosi di non dimostrata compensazione del debito per asseriti pregressi finanziamenti. Ed invero, esso ripropone, in maniera parimenti generica, il profilo del finanziamento senza indicare gli elementi specifici alla stregua dei quali si potesse operare un raffronto concreto tra quanto ricevuto e quanto poi attribuito alla società Brugnano s.a.s. con l'apparente contratto di locazione. Ha osservato la Corte di appello al riguardo che nessuna prova è stata raggiunta in ordine agli aspetti fondamentali del finanziamento che sarebbe stato effettuato dalla società Brugnano in favore di V.M., in particolare in relazione ai tempi e all'ammontare di eventuali erogazioni rispetto al canone locatizio pattuito e dovuto dall'asserita finanziatrice Brugnano s.a.s. In tale prospettiva quel che è certa - osserva la Corte di appello, in tal modo dando congrua risposta anche alla censura sull'elemento soggettivo - è la consapevolezza e la volontà dell'imputato nella qualità di amministratore di fatto di estromettere i predetti beni, visti sotto il profilo della facoltà di godimento ad essi connessa, dal patrimonio della fallita senza corrispettivo con conseguente diminuzione della garanzia patrimoniale della società. Tale coscienza e volontà è avvalorata dall'essere l'apparente conduttrice Brugnano s.a.s. una compagine sotto il controllo dello stesso Vetere, il quale ometteva in una prima fase di riferire al curatore dello stato locativo delle unità immobiliari, circostanza, questa, ritenuta, in maniera non illogica, ulteriore indice della piena consapevolezza della natura illecita dell'operazione da parte dell'imputato.
    1. Il terzo motivo è anch'esso generico a fronte della puntuale, articolata e congrua motivazione resa dalla Corte di appello con riferimento a ciascuna delle ipotesi distrattive avente ad oggetto prelievi di somme ingiustificati. La sentenza impugnata ha in particolare evidenziato come importi di denaro rilevanti siano usciti dalle casse della società - sia tramite prelievi effettuati dal Vetere, delegato ad operare sul conto, che mediante assegni emessi direttamente anche in favore di se medesimo dal Vetere o di beneficiario non identificato - anche in pendenza della domanda di fallimento o addirittura dopo la dichiarazione di fallimento; prelievi di somme giustificati dall'imputato, in sede di spontanee dichiarazioni, come destinati ai pagamenti degli artigiani/operai/lavoratori, laddove - mettono in evidenza i giudici di merito - le operazioni contabilmente risultavano nel loro complesso riferite al Vetere in quanto iscritte come "rimborso soci", ed all'epoca socio unico era proprio Vertere Antonio. Era in ogni caso rimasta del tutto sfornita di riscontro la prospetta2:ione difensiva secondo cui il
denaro era stato prelevato in contanti per essere dato al lavoratore Brugnano, che aveva piuttosto dichiarato di aver chiesto le somme direttamente al Caruso. Conclude, dunque, la Corte di appello che rimane affermazione difensiva del tutto priva di supporto probatorio (ed anzi contraddetta dalle descritte risultanze contabili) la circostanza che la provvista in ipotesi impiegata dal Caruso - formale amministratore unico dal 4.12.2012 al fallimento - fosse stata prelevata in contanti dal Vetere e da questi consegnata al Caruso. In ogni caso - si annota, infine, nella sentenza impugnata, anche sul versante dell'elemento soggettivo - le eventuali istruzioni del Caruso, che l'imputato assume di aver eseguito in relazione agli indebiti prelevamenti da lui effettuali dopo il deposito della domanda di concordato preventivo e la stessa dichiarazione di fallimento, non escludono la responsabilità del Vetere.
    1. Anche il quarto motivo è generico, esso censura la bancarotta fraudolenta documentale sotto il profilo del dolo specifico, limitandosi ad evidenziare che tale profilo soggettivo non sarebbe configurabile essendo intervenuta sia pure postuma la consegna al curatore di libri mancanti, quali il libro iva 2009, H libro cespiti 2012; si assume che, a fronte di tale consegna, non possa essere ritenuta logicamente configurabile in capo all'imputato la consapevolezza e volontà di arrecare pregiudizi ai creditori ovvero di impedire la ricostruzione del movimento degli affari.
Ebbene, al di là della parziarietà di tale impostazione, che assume in maniera generica ed assertiva che la circostanza della successiva consegna di libri contabili al curatore sia indicativa dell'assenza di dolo - specifico - e della volontà di non consentire la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio sociale, laddove tale consegna, secondo quanto si riporta nella sentenza impugnata, non oggetto di contestazione sul punto, interveniva solo dopo che il curatore aveva con insistenza richiesto il deposito dei libri mancanti, si osserva che in ogni caso la prospettazione difensiva non considera che la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale ravvisata dai giudici di merito è quella c:d. generica della tenuta irregolare delle scritture contabili di cui alla seconda parte dell'art. 216 comma 1 n. 2 I.f., che richiede il dolo generico, e che il curatore - sempre secondo quanto si riporta nella sentenza impugnata - ha comunque escluso di avere potuto operare un'adeguata ricostruzione delle vicende societarie pure a seguito dell'integrazione documentale. Il motivo, per come articolato, non ha dunque in alcun modo scalfito le direttrici su cui si dipana l'individuazione della condotta di bancarotta fraudolenta documentale nel caso di specie, tenuto conto, da un lato, della registrazione di operazioni fuorvianti e prive di logica e ragionevolezza imprenditoriali (si veda, a tale proposito, l'anomalo giroconto contabile descritto alle pagg. 13 e 14 della sentenza impugnata) e, dall'altro, della carenza di documenti relativi al rapporto intercorso con la Hotel del Borgo s.r.l.
    1. Il quinto motivo, che si appunta sul reato di operazioni dolose causative del fallimento, è aspecifico perché non considera che la Corte di appello, a differenza di quanto si assume in ricorso, ha già tenuto conto che la principale causa di decozione della società sia da imputare al fatto che la
V.M. aveva assunto un ingente debito derivante dall'acquisto della società Hotel del Borgo s.r.l. e che il partner contrattuale Insubria Viva aveva trattenuto, contravvenendo agli accordi intercorsi, parte delle rate del finanziamento erogato da Unicredit ed aveva omesso di corrispondere a V.M. le somme ricevute da parte dell'Agenzia delle entrate a titolo di rimborso iva e che parimenti Unicredit aveva erogato un mutuo di gran lunga inferiore alle promesse, così privando V.M. della liquidità attesa. Ha tuttavia osservato che tali circostanze non escludono che la decisione di proseguire l'attività attraverso l'escamotage del sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie e contributive abbia co- determinato il dissesto nella sua concreta dimensione, aggravando sensibilmente l'ammontare della massa passiva. Va solo per completezza ricordato che l'art 223, secondo comma, n. 2 legge fallimentare prevede due autonome fattispecie criminose; esse, dal punto di vista oggettivo, non presentano sostanziali differenze, mentre, da quello soggettivo, vanno tenute distinte: infatti, nell'ipotesi di causazione dolosa del fallimento questo è voluto specificamente, mentre nel fallimento conseguente ad operazioni dolose esso è solo l'effetto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell'operazione ha accettato il rischio della stessa. La prima fattispecie è dunque a dolo specifico, mentre la seconda - contestata e ravvisata nel caso di specie - è a dolo generico.   Sempre solo per completezza va anche ricordato che questa Corte ha più volte affermato che le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, legge fall. Possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell'erario e degli enti previdenziali (cfr. tra tante, Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, Rv. 273337 - 01) e che esse postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale, riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (ex multis, Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri, Rv. 26168401), nel caso di specie consistito nell'inadempimento sistematico degli obblighi tributari; tale inadempimento è stato accompagnato dalla prosecuzione dell'attività e ha, quindi, finito col contribuire, in modo prevedibile, ad aggravare il dissesto della società, determinando il maturarsi di ulteriori debiti con lo Stato (derivanti oltre che dalla produzione di interessi anche dalle conseguenti sanzioni). Va, peraltro, rimarcato che, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria prevista dall'art. 223, secondo comma, n. 2, R.D. 16 maggio 1942, n. 267, non interrompono il nesso di causalità tra l'operazione dolosa e l'evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all'art. 41 cod. pen., né il fatto che l'operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l'aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in sè reversibile (cfr. per tutte Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Rv. 262189 - 01). D'altronde, è logico ritenere che il sistematico inadempimento dei debiti tributari esponga (nel prevedibile caso di accertamento dei reati, nella specie concretizzatosi) la società a un dissesto di proporzioni tanto più rilevante quanto più elevato sia l'accumulo nel tempo dell'inadempimento e la percentuale di incidenza dello stesso sull'intero movimento di affari della società (così Sez. 5, n. 41055 del 04/07/2014, Crosta, in motivazione, sia pure in relazione al caso del perpetuarsi di operazione in frode all'Erario - ma la situazione non muta, ovviamente, rispetto al caso di specie), laddove all'inadempimento delle obbligazioni tributarie consegue non solo la produzione di interessi ma anche l'applicazione di sanzioni. Sicché, nell'ipotesi di fallimento causato dai operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni sotto il profilo dell'elemento soggettivo – come certamente nel caso di specie secondo la congrua ricostruzione svolta dai giudici di merito (cfr. in particolare pag. 15 della sentenza impugnata in cui si dà, tra l'altro, atto che l'esposizione con l'Erario ha raggiunto il tetto di euro 845.000,00 - alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa -Sez. 5, n. 45672 del 1/10/2015, Lubrina, Rv. 265510). Al riguardo la Corte di appello (pag. 16 della sentenza) ha altresì osservato come nel caso di specie fosse certo che, date le condizioni in cui versava la società e la completa assenza di ogni forma di prospettiva salvifica, l'aggravamento del disseto fallimentare era non soltanto concretamente prevedibile, ma altresì effettivamente previsto ed accettato come possibile conseguenza della prosecuzione artificiosa dell'attività d'impresa. Indi conclude la Corte di Appello, alla luce della pertinente cospicua giurisprudenza di questa Corte, richiamata ed analizzata con congrui argomenti adattati al caso di specie, che anche tale fatto di bancarotta dovesse essere attribuito alla figura dell'amministratore di fatto Vetere. 1.6. L'ultimo motivo, che reclama il riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, è aspecifico e manifestamente infondato, perché la Corte di appello si è espressa in termini di equivalenza sulla base di congrua ed articolata motivazione, che dà conto degli aspetti che hanno deposto per il riconoscimento e per una valutazione di sostanziale compensazione tra le opposte ragioni aggravatrici ed attenuatrici (cfr. pag. 17 della sentenza impugnata). D'altra parte, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Rv. 245931 - 01; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Pennelli, Rv. 27045001). Ne consegue che, risultando il percorso argomentativo adottato dal giudice distrettuale ineccepibile, soprattutto ove raffrontato con le generiche deduzioni spiegate, in parte qua, nell'impugnativa, che reiterano, peraltro, anche censure che sono state ritenute già ampiamente infondate ai precedenti punti, anche il sesto motivo è manifestamente infondato.
  1. Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento.
P.Q.M.   Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 9/1/2024.